Rigenerazione urbana e dei sistemi naturali

Rigenerazione urbana e dei sistemi naturali

di Gian Vito Graziano, Presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi

Percorrere la strada dell’innovazione e della modernità si traduce per i geologi nella capacità di porre i propri saperi professionali e le proprie idee di futuro a servizio delle grandi questioni sociali. Tra queste ultime, la necessità di intraprendere un processo di rigenerazione urbana e dei sistemi naturali salda le politiche per il territorio ai temi dello sviluppo delle città, incarnando quel decoupling di cui ha recentemente parlato il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti nel suo intervento al Consiglio dei Ministri dell’ambiente Ue in Lussemburgo, ovvero la necessità per l’Europa di “disaccoppiare” la crescita economica dal consumo di risorse naturali.

In altre parole la necessità di rispondere ai bisogni espressi senza distruggere la capacità di rigenerazione dei sistemi naturali implica l’adozione di strategie di sviluppo alternative, consapevoli e correlate a tecnologie compatibili.

Intervenire sul territorio è divenuto quanto mai urgente, non solo per ovviare alla progressiva diminuzione della loro capacità competitiva, per effetto di un modello di governo che non corrisponde alle sue esigenze e che non consente di compiere scelte adeguate e tempestive, ma anche per la vulnerabilità che essi evidenziano di fronte ai cambiamenti climatici.

L’eccessivo consumo di suolo naturale, ovvero il passaggio da coperture agricole e naturali a coperture urbane, e la conseguente progressiva impermeabilizzazione (un suolo pienamente funzionante immagazzina acqua fino a 3.750 tonnellate per ettaro), oltre a riguardare la sfera squisitamente ecologica, sta esponendo a rischi sempre più gravi le aree urbanizzate nel frequente susseguirsi di eventi meteorologici severi e talora estremi.

La conseguenza è che anche le città stanno perdendo la loro capacità competitiva e stanno evidenziando tutta la loro vulnerabilità.

In Italia si consuma suolo per costruire infrastrutture, che insieme agli edifici ricoprono quasi l’80% del territorio artificiale (strade asfaltate e ferrovie 28% – strade sterrate e infrastrutture di trasporto secondarie 19%), seguite dalla presenza di edifici (30%) e di parcheggi, piazzali e aree di cantiere (14%).

Gli effetti causati dall’impermeabilizzazione del suolo non si traducono soltanto nelle modifiche dell’assetto idrogeologico, ma coinvolgono anche l’alterazione del paesaggio e dell’ecosistema e la compromissione delle funzioni produttive del terreno, con la conseguente riduzione delle produzioni agricole.

La sbornia di cemento ha comportato dal 2009 al 2012 l’immissione in atmosfera di 21 milioni di tonnellate di CO2, pari all’introduzione nella rete viaria di ulteriori 4 milioni di utilitarie (l’11% dei veicoli circolanti nel 2012), con una percorrenza di 15.000 km/anno, con un conseguente costo complessivo stimato intorno ai 130 milioni di euro (cfr. Rapporto ISPRA sul consumo di suolo, 2012)

Nei secoli passati la progressiva trasformazione di superfici agricole o naturali in superfici urbane era caratterizzata da una proporzionalità diretta con l’aumento della popolazione, ma oggi questa relazione non esiste più, se solo si pensa che dal 1950 ad oggi le città in Europa sono cresciute di circa il 78%, mentre l’aumento della popolazione non raggiunge nemmeno il 33%.

Anche in Italia il territorio edificato, dunque sottratto all’agricoltura, è aumentato del 166% a partire dagli anni ’50, con un consumo di suolo non distribuito omogeneamente, in parte a causa della morfologia del paese, più spesso per ragioni sociali ed economiche differenti fra le varie regioni. Le regioni più interessate al fenomeno, sia in termini assoluti, sia in rapporto alla superficie e alla popolazione regionale, sono Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

In termini assoluti, si è passati da poco più di 21.000 kmq del 2009 ai quasi 22.000 kmq del 2012, mentre in percentuale è ormai perso irreversibilmente il 7,3% del nostro territorio.

Allo stesso tempo altre regioni, soprattutto quelle del meridione, che nel passato avevano risentito in misura minore della perdita di superficie agricola, nel periodo 2001-2012 hanno invertito la tendenza, con un inevitabile cambiamento delle caratteristiche del proprio territorio, che tuttavia è ancora ben preservato dal depauperamento delle proprie risorse. Nel Sud d’Italia le aree urbanizzate sono ancora molto inferiori (4,7%) rispetto alla media nazionale, ma con una variazione nell’ultimo decennio superiore al 10%. Basilicata e Molise in particolare hanno visto aumentare le loro superfici urbanizzate rispettivamente del 19% e del 17%.

Le cause di questa proliferazione edificatoria devono essere cercate principalmente nella scarsa regolamentazione urbanistica e nell’elevata discrepanza tra la redditività dell’edilizia e quella agricola.

Non dimentichiamo che sino a qualche tempo fa le poco lungimiranti politiche agricole avevano permesso di percepire il settore agricoltura più come elemento parassitario che come risorsa per l’economia e per le esigenze alimentari di una popolazione comunque in crescita. Oggi questa percezione è radicalmente cambiata, tuttavia il consumo di suolo continua a produrre forti impatti sull’agricoltura: se avessimo coltivato interamente a cereali i 70 ettari di suolo perso ogni giorno, avremmo goduto di una produzione di 450.000 tonnellate nel periodo 2009-2012, con un ricavo esclusivamente economico di 90 milioni di Euro e la conseguente diminuzione della dipendenza italiana dalle importazioni di cereali.

Invece continuiamo ad impermeabilizzare ed a far perdere ai nostri terreni la loro capacità di ritenzione idrica, con le conseguenti immense difficoltà di dover gestire quantitativi sempre maggiori di acqua che può più infiltrarsi. La perdita di capacità di ritenzione dovuta all’impermeabilizzazione giornaliera dei 70 ettari di suolo è stimata in quasi 100 milioni di tonnellate d’acqua all’anno. Non è un caso se ad ogni pioggia intensa larghe parti del nostro territorio si allagano.

Ne deriva, è sin troppo evidente, che quei paradigmi che stavano alla base dell’espansione e della trasformazione urbana non sono più validi, per cui è necessario modificare, ed in modo radicale, le politiche per il territorio, secondo un approccio che non deve più mantenere distinte le scelte urbanistiche da quelle ambientali.

Sono troppe le criticità legate a scelte urbanistiche sbagliate, con riferimento soprattutto a quelle che interferiscono con il sistema idrogeologico superficiale, che evidenziano in tutta la sua gravità come il tema del territorio sia ancora considerato settoriale, se non persino marginale, rispetto alla pianificazione ordinaria. Occorre un nuovo approccio, che parta dalle attuali condizioni insediative, economiche e ambientali di città e campagne e assuma una strategia di adattamento al contesto specifico, che permetta a nuovi interventi di riqualificazione urbana e naturale di divenire persino un’occasione di resilienza.

Un territorio resiliente non solo si adegua, ma cambia co­struendo risposte ambientali, economiche, sociali ai problemi posti dai rischi naturali, dal consumo di suolo, dai cam­biamenti climatici, questi ultimi percepiti come “inderogabilità del fare” e non come attenuante di un presunto “non poter fare”.

Per attuare una strategia di questo tipo occorre innanzitutto rinaturalizzare i sistemi idrografici, che nella maggior parte delle città italiane sono fortemente antropizzati, aumentare la copertura vegetale degli spazi aperti urbani e seminaturali presenti all’interno dei tessuti urbani e soprattutto contenere drasticamente il nuovo consumo di suolo.

Indurre a perseguire un modello insediativo che comporti una drastica riduzione del consumo di suolo e la rinaturalizzazione delle molte aree libere interne alla città significa riferirsi a un diverso modello di sviluppo e ad una diversa crescita rispetto al passato. In questa direzione è interessante segnalare la recente esperienza degli orti urbani, ovvero la messa a dimora di piccoli orti nei suoli inedificati interni alla città, che svolgono una funzione rilevante di rigenerazione naturale, aumentando la capacità di ritenzione delle acque, andando quindi nella direzione auspicata. Si tratta di interventi che vanno incentivati per tutte le aree cosiddette interstiziali, magari dismesse o abbandonate, che garantiscono anche dotazioni e spazio pubblico per la città circostante. Per incentivare queste iniziative occorre però ricalcolare la rendita fondiaria di questi terreni, per non alimentare aspettative troppo alte di rendimento immobiliare.

C’è poi da rivedere il sistema delle reti per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani, ma anche le reti dei sottoservizi, soprattutto per quelli che svolgono un ruolo fondamentale verso la sostenibilità urbana, come le reti fognarie, in rapporto al sistema delle acque superficiali e di falda, o come le reti idriche, in rapporto ai diversi usi non idropotabili dell’acqua, senza trascurare le reti energetiche e la loro integrazione con le nuove produzioni di energie rinnovabili.

Uno studio del Central Europe Programme, secondo il quale un ettaro di suolo consumato comporta una spesa di 6.500 euro solo per la parte relativa al mantenimento e la pulizia di canali e fognature, stima che il costo della gestione dell’acqua non infiltrata in Italia dal 2009 al 2012 sia intorno ai 500 milioni di Euro.

Si tratta insomma di rimettere in discussione l’intero concetto di territorio, valutando in termini di bilancio ambientale le risorse disponibili e quelle necessarie per la crescita. Un territorio che dovrà essere trattato nella sua complessità di spazi urbani ed extraurbani, con diverse densità e modalità di uso del suolo e di spazi naturali e seminaturali, dove alle principali funzioni insediative urbane devono aggiungersi quelle più prettamente rurali.

Il controllo del consumo di suolo, la messa in sicurezza, la manutenzione del territorio, il riuso del territorio e delle città sono azioni che non si fanno per decreto, ma attraverso una politica economica virtuosa e sostenibile, che passi da una prospettiva di trasformazione e di riqualificazione ad una di rigenerazione, considerando tutte le risorse che riguardano l’economia, per rispondere attraverso il loro contributo anche alle domande di miglioramento delle condizioni di sicurezza. Una politica che sappia individuare strategie di integrazione tra le problematiche di tutela e salvaguardia a lun­go termine con le misure di mitigazione e di adattamento a breve e medio termine, mi­gliorando la coerenza delle strategie di sviluppo locale e l’allocazione di risorse tecnologiche.

Significa saper far riemergere dal territorio la sua capacità di produzione di ricchezza, che oggi appare soffocata da politiche poco attente e da una visione dell’economia ancora troppo dissociata dai temi dell’ambiente. Una capacità di produzione di ricchezza che potrebbe essere liberata da un cambiamento del modo politico di considerare il territorio, con le sue città, le sue campagne e le sue risorse naturali. Significa ridefinire una strumentazione di intervento moderna, sulla quale fondare un nuovo intervento pubblico e di programmazione delle risorse.

Una politica che lo Stato potrebbe gestire senza le difficoltà legate alla carenza di risorse economiche, garantendo risvolti sociali sin troppo evidenti. Ma lo si può fare solo a condizione che l’intera operazione rappresenti per il governo nazionale un imperativo di legislatura, un impegno direttamente collegato a quello di risanare i conti dello Stato e di rilanciare l’economia e l’occupazione Un impegno gradito ai cittadini, che vedrebbero persino soddisfatti i propri diritti fondamentali, tra cui quello di vivere in un territorio sicuro.

 Luglio, 2014

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