di Gian Vito Graziano, Presidente Consiglio Nazionale dei Geologi
In Italia dal 1861 ad oggi abbiamo avuto 35 disastri sismici, ovvero terremoti con elevato ed esteso impatto distruttivo, in media uno ogni 4 – 5 anni, con gravi danni a 1560 località, fra cui 10 città capoluogo. Il patrimonio edilizio storico nel nostro Paese comprende oltre il 65% del costruito attuale.
Siamo a parlare ancora una volta di un Paese ricco di monumenti e di centri storici, ma anche di catastrofi naturali che producono morte e devastazione, dove, mentre si continua a morire sotto i colpi di terremoti neanche particolarmente severi, ma ora persino sotto i colpi di forti temporali, si discute senza mai entrare nell’essenza e nel rigore dei problemi per tentare di risolverli.
Una storia sismica, quella italiana, che avrebbe dovuto portare ad investire in cultura geologica, a configurare politiche che si pongano l’obiettivo prioritario di mettere in sicurezza le nostre case, le nostre scuole e i nostri uffici, a programmare strategie di comunicazione verso i cittadini affinché imparino a convivere con il rischio.
Sono passati cinque anni dal terremoto che sconvolse L’Aquila e l’Abruzzo, ne sono passati due da quello dell’Emilia Romagna, due eventi così drammatici accaduti nell’era della comunicazione, che avevamo erroneamente creduto che avrebbero finalmente posto le basi per una efficace politica di prevenzione sismica, pur nell’incapacità tutta italiana di pianificare azioni e strategie.
Quelle immagini, la spinta che proveniva dai social network, persino alcune dichiarazioni convinte di uomini delle istituzioni, non potevano non produrre una reazione, uno sdegno per un sistema Paese così vulnerabile e allo stesso tempo così disattento. Ci siamo configurati un Paese che sapeva finalmente reagire al suo stesso colpevole torpore culturale, invece ci ritroviamo a commentare una storia reale diversa, persino sin troppo diversa, che vede la Regione Lazio chiudere il Servizio Geologico Regionale proprio mentre a Senigallia si contavano i danni e subito dopo a Refrontolo si contavano persino le vittime.
Una storia reale che ci trova ancora a dover combattere contro una visione miope delle cose, talvolta persino intrisa di un incomprensibile ostracismo nei confronti della geologia, che ci vede combattere il ruolo marginale che si vuole attribuire al servizio geologico dell’Ufficio Dighe del Ministero delle Infrastrutture, quello che venne costituito 50 anni orsono dopo la tragedia del Vajont: viene da chiederci se quel servizio venne effettivamente costituito perché se ne comprese la necessità o solo perché sull’onda dell’emozione per quei tragici eventi bisognava, una volta tanto, guardare all’evidenza ed ascoltare la coscienza.
Se quel servizio venisse anch’esso soppiantato, la gente di Longarone, Castellavazzo, Erto e Casso, che con il suo fardello di ricordi e di dolore ha finito per assegnare alle scienze della terra un ruolo etico di garanzia, quello della prevenzione e della salvaguardia del territorio, finirebbe per dover sopportare un nuovo ennesimo oltraggio.
Oggi l’evidenza non la si guarda neanche all’indomani dei continui disastri legati allo stato di dissesto idrogeologico in cui versa il Paese. La coscienza poi non la si ascolta da tempo, se solo si pensa che in Parlamento qualcuno ha voluto portare in aula una ennesima proposta di condono edilizio a soli due mesi dal terremoto dell’Emilia, di cui evidentemente aveva dimenticato i troppi morti e quelle terribili immagini dei crolli dei capannoni sotto i quali furono seppellite le speranze di tanta gente.
Ci eravamo illusi, è vero, convinti come siamo che sia arrivato il momento di far uscire dall’angolo la cultura geologica, come succede nel resto d’Europa e del mondo, dove i Servizi geologici sono stati rilanciati per consentire lo sviluppo economico e sociale delle nazioni.
Ci aspettavamo una politica che avrebbe dovuto e saputo dosare gli interventi necessari e che soprattutto avrebbe dovuto e saputo compiere passi importanti verso una sempre auspicata, ma mai compiuta, svolta culturale.
Invece stanno chiudendo molti corsi di laurea e gli stessi dipartimenti di Geoscienze, sono azzerati i finanziamenti per la ricerca di base, dovranno chiudere la metà delle scuole di dottorato, non vengono rimpiazzati i docenti che vanno in pensione ed è più che marginale la posizione delle Scienze nei programmi scolastici. Si tratta di un problema non solo accademico o culturale, ma anche sociale, ambientale ed economico.
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