Investire sulle materie prime: una necessità economica fondata su un approccio etico

Il tema delle attività estrattive porta con se, in qualunque ambito venga trattato, il contrasto che esso pone nei confronti delle giuste istanze dell’ambiente.

E’ il contrasto di radici lontane tra i temi dello sviluppo, inteso nel senso più ampio e dunque anche in quello più strettamente economico, ed i temi della natura, che pone da una parte le dinamiche e le necessità di una società moderna in continua evoluzione, dall’altra quelle della salvaguardia dell’ambiente e delle altrettanto cogenti necessità di una vita che si possa sviluppare entro contesti di generale benessere.

E’ un contrasto antico, ma sempre attuale, che porta con se diverse filosofie di vita e differenti approcci culturali, che difficilmente possono trovare una sintesi condivisa sulla quale impostare nuove strategie di sviluppo.

Ne è un esempio l’esperienza della green economy, che sembrava potesse rappresentare una sintesi più o meno riuscita tra le due differenti istanze e che invece è stata anch’essa messa in discussione da entrambe le scuole di pensiero, ovvero da chi sostiene che essa non è sufficiente a far fronte ad istanze sempre crescenti di energia, arrivando persino ad invocare il grande passo verso il nucleare, e chi sostiene che essa non possiede i necessari requisiti di sostenibilità ambientale.

Pale eoliche e pannelli fotovoltaici hanno perso il loro primordiale appeal e probabilmente sono destinati ad entrare, o forse già lo sono, in una evidente crisi di credibilità.

L’industria estrattiva si colloca in questa atavica dicotomia e sconta certamente il peccato originale legato alle escavazioni ed alle conseguenti ferite inferte al paesaggio, per cui viene percepita, forse di più che per altre industrie, come una forte esternalità negativa.

A questo si aggiunga la complessità normativa della materia, forse figlia di questa percezione prevalentemente negativa, complicata da quel federalismo demaniale che ha fatto sì che dall’avvento delle competenze in capo alle Regioni, ciascuna di esse ha legiferato per conto proprio, con il risultato che spesso attività analoghe in Regioni diverse vengono affrontate con soluzioni e difficoltà operative molto differenti.

Con il risultato che per compendiare a tutti i costi le istanze produttive con quelle ambientali sono state varati dispositivi e norme incongruenti, se non in palese contrasto, dove ad esempio l’attività estrattiva, seppur consentita e prevista in un dato piano delle cave, è poi di fatto impedita dalla presenza nella stessa area di rigidi vincoli ambientali.

Eppure non è difficile pensare di poter mettere mano ad una legge quadro nazionale (considerato che quella attuale è del 1927), che abbia compiti di coordinamento di tutte le legislazioni regionali, come peraltro ci è già stato raccomandato dalla Comunità europea.

Questo consentirebbe non solo di disciplinare i contenuti minimi di un progetto di coltivazione, di risistemazione o di ampliamento, ma anche di rendere coerente tutta la legislazione collaterale, quali le competenze in merito al rilascio delle autorizzazioni, gli scarichi, gli indennizzi, le tariffe, ecc.

Ma non è difficile pensarlo nella misura in cui si abbia la consapevolezza che il nostro Paese voglia effettivamente investire sulle sue materie prime, non restando al palo rispetto alle altre nazioni, come invece sta accadendo ormai da anni.

In Germania, che è spesso citata come modello per l’Europa, forse non sempre a ragione, ma certamente molto spesso, in seno al Servizio Geologico è stata di recente costituita una nuova agenzia per le risorse minerarie.

Come dire, per uscire dalla crisi, come non pensare di sfruttare quelle materie prime che ci stanno sotto i piedi?

Eppure in Italia il fatturato per i soli comparti dei materiali lapidei e della sabbia ha sfiorato nel 2010 i 4 miliardi di euro, circa l’1% del PIL.

Ma c’è di più: la Francia, attraverso il proprio Servizio Geologico, sta rimettendo in piedi un analogo servizio in Marocco, dove esso era stato smantellato, per sfruttare le enormi risorse di fosfati presenti in terra africana. Se ne avvantaggerà il Marocco, ma è naturale pensare ai grossi benefici economici che ne trarrà anche la Francia.

Ed ancora si potrebbe citare l’accordo che l’Unione Europea sta definendo con la Danimarca, per l’estrazione di terre rare in Groenlandia.

Insomma i Paesi europei e la stessa Unione dimostrano capacità di investimento nelle materie prime e di essere validi competitori dei grandi colossi internazionali, Cina e India prime tra tutte.

E noi?

Non possiamo non rilevare che il Paese ha perso la capacità di investire, soprattutto nell’industria mineraria, ma anche in quella estrattiva.

Non possiamo non rilevare che siamo rimasti al palo, anche in un momento di forte crisi economica, rispetto al resto dell’Europa che invece fonda buona parte delle proprie economie e basa i propri investimenti nelle materie prime.

La Comunità europea ha individuato 14 materie prime strategiche, molte delle quali hanno un utilizzo diretto nell’innovazione tecnologica e soprattutto nell’industria hi-tech.

Tra queste c’è l’antimonio, di cui è ricca la Toscana, ma in Italia preferiamo importarne il 90%, soprattutto dalla Cina, che ne ha attualmente il monopolio. Eppure l’Italia con i suoi giacimenti potrebbe attestarsi ai primi posti della produzione mondiale, se solo decidesse di estrarlo.

Quello delle materie prime è una delle cinque sfide sociali dell’Europa (tra queste c’è il problema dell’acqua, ma anche quello dell’invecchiamento), ma in questo momento il nostro Paese non ritiene di raccoglierla.

Eppure abbiamo competenze e know how, ma dobbiamo rivedere la nostra politica economica, industriale, e mi permetto di dire da geologo, soprattutto culturale. 

Una nuova politica di sviluppo è necessaria, ma senza pregiudizi e senza eccessi. Una politica che sappia mettere i saperi a disposizione del sistema finanziario e non, come si tenta di fare, di assoggettare i saperi al sistema finanziario.

Solo in un sistema di conoscenze si potrà ridiscutere persino della possibilità di riaprire le miniere, con criteri nuovi, di qualità e di elevata sicurezza per le maestranze e per l’ambiente,  senza gridare allo scandalo.

Un sistema di conoscenze rappresenta un sistema di valori posti a servizio della comunità e non a servizio di soli interessi economici.

Un sistema di conoscenze permetterebbe di attuare una politica di innovazione tecnologica capace di indirizzare l’attività mineraria anche sulle materie prime seconde, evitando di mandare a discarica una enorme quantità di materie prime.

Occorre certo un approccio corretto, etico se volete, per affrontare un tema tanto delicato, ma allo stesso tempo tanto importante e strategico per l’Italia. 

Nel 2004 l’Ordine dei Geologi della Toscana pubblicò un interessante documento dal titolo “Linee guida per lo svolgimento della funzione di direttore responsabile nelle attività estrattive”. Nella prefazione l’allora Presidente dell’Ordine dott. d’Oriano così scriveva: “Far bene il proprio lavoro…non può, né deve significare soltanto corrispondere a tutte le richieste normative e regolamentari, ma rispettare anche quelle specificità che sono insite nello studio delle scienze della terra, e quindi anche il nostro bagaglio culturale, e che fanno del geologo, se si vuole, un professionista anomalo rispetto ad altri. Nel senso che il rispetto delle leggi naturali che regolano l’evoluzione e la formazione della superficie terrestre, nella loro accezione più ampia e complessa, è un dovere in quanto quelle costituiscono per noi una sorta di supercommittente che non possiamo, né dobbiamo ignorare“.

Da qui bisogna partire, i geologi lo sanno.

 

 

                                                                                                          Gian Vito Graziano